LA CASA

CENNI STORICI

La casa dove visse e morì la beata Osanna (1449-1505), laica domenicana, prese l’attuale aspetto nella seconda metà del ‘400. Nel 1475 apparteneva certamente alla nobile famiglia Andreasi. Pur tra alterne vicende, la casa rimase nella disponibilità della famiglia Andreasi, anche di rami collaterali a quello della Beata, fino al 1780, quando, per dote nuziale, la casa passò alla famiglia Magnaguti. Il conte Alessandro Magnaguti, ultimo della sua casata, nel 1924 la faceva restaurare e la offriva, nel 1926, alle suore domenicane Imeldine di Venezia affinché venissero a Mantova a custodirla e a tener vivo il ricordo della Beata. Dal 1934 quando questo progetto decadde, il conte Alessandro ospitò nella casa tre terziarie laiche della Fraternita domenicana di Mantova, che vi abitarono fino al 1958, quando fu permesso che nella casa si radunasse periodicamente tutta la Fraternita dei Laici domenicani. Il conte Alessandro morì nel 1966 e lasciò il piano nobile della casa alla Provincia Domenicana quale sede perpetua della Fraternita mantovana. Nel 1991 la stessa Provincia acquistava dalla Parrocchia la rimanente parte della casa, che diveniva così un’unica proprietà, sede di iniziative domenicane e culturali. Rispettata attraverso i secoli per la venerazione alla Beata, la palazzina rimane, nella sua struttura quasi originaria, un tipico e raro esempio di abitazione quattrocentesca mantovana.

Situata al n. 9 dell’attuale via Pietro Frattini, la casa della beata Osanna si distingue per l’aspetto sobrio e lineare della facciata, caratterizzata da un basamento di mattoni a vista simile a contrafforte, messo in evidenza dai restauri del 1926. Alcuni elementi rivelano lo stile dell’architetto fiorentino Luca Fancelli (1430-1495) operante a Mantova nella seconda metà del secolo. Le linee fancelliane sono evidenti nelle quattro finestre del piano superiore, dal nitido taglio rettangolare, incorniciate in terracotta, non appoggiate a marcapiani e ritmate secondo lo schema 1-2-1. Nell’ammezzato si aprono quattro finestre, analoghe per disposizione a quelle del piano superiore, ma più piccole, strombate e con una cornice in cotto più semplice. Tre gradini, sul lato sinistro della facciata, conducono al portoncino d’ingresso, incorniciato da un archetto in cotto a tutto sesto venuto alla luce durante i restauri eseguiti nel 1926. Altre aperture, sulla facciata, danno luce alla soffitta e alla cantina.

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Varcato l'ingresso,

a destra si nota la sagoma di una porta murata. Questa conduceva ad una sala che, nel tempo, fu suddivisa in tre parti, in cui rimangono tracce dell’affresco (inizi XVI secolo) che impreziosiva le pareti. Il corridoio d’ingresso si allarga formando un atrio in cui una lapide, dettata nel 1935 e siglata ‘ultimo indegno erede’ da Alessandro Magnaguti, riassume la vita della Beata e dà la chiave di lettura per la visita alla casa. Da qui si accede al giardino, hortus conclusus e giardino dei semplici, diviso in due parti da un loggiato ortogonale a tre arcate -di cui due ancora affrescate (sec. XV)- le cui colonne anteriori, in marmo rosa veronese, sono ingentilite da un capitello che reca scolpito lo stemma degli Andreasi: un cigno e una stella. Fu dato al loggiato l’aspetto attuale nel 1926 demolendo alcune stanze ivi esistenti, forse residui di un secondo fabbricato: la sistemazione del loggiato ha reso il giardino più spazioso e suggestivo. Nell’area oltre il loggiato, in antico coltivata ad orto, la Beata un giorno si punse un dito mentre raccoglieva l’uva spina; con la mano stillante sangue pensò allora a Cristo coronato di spine e, come narra un biografo a lei contemporaneo, Lo vide che le annunziava la croce de molte tribolationi per suo amore. L’episodio è ricordato in una iscrizione in terracotta (predisposta da Giannino Giovannoni) posta sul muro di destra, sotto la quale si coltiva ancora un’uva spina. L’effigie della Beata murata sotto il portico trae origine dalla maschera funeraria ed è una copia di quella esistente nella chiesa di Carbonarola, località dove la Beata nacque e dove trascorse una parte della fanciullezza. Nella parete di fronte la terracotta con I Sacri Vasi, dono di Mansueto Bassi. Nel giardino, in una rientranza del muro che separa da un altro cortile un tempo dell’unica proprietà, è stata posta un’immagine della Madonna venerata a Milano nella basilica di Santa Maria delle Grazie. Fu portata in dono dai laici domenicani di quella città nel 1975, a ricordo della visita che la Beata fece cinquecento anni prima a quel santuario: fu quella l’unica occasione in cui Osanna si allontanò dal territorio mantovano.

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Rientrati nell'atrio,

a sinistra, una porta conduce nella sala Giannino Giovannoni, una sala bassa, sulle cui pareti restano tracce di intonaco originale e una piccola parte di affresco a grottesche, isolato e picchettato. In alcuni travetti del soffitto sono visibili, anche se tenui, i disegni e i colori che lo decoravano: motivi floreali si alternano agli stemmi di casa Andreasi nelle cartelle lignee. Il soffitto scuro a cassettoni è alleggerito da rosette dorate. Il camino di marmo chiaro veronese è del secolo XV; sopra questo, una Madonna del rosario, dono di mons. Luigi Bosio. La saletta accoglie opere di Giannino Giovannoni, laico domenicano: Gesù alla colonna, una Crocifissione e San Giovanni nel deserto sia dipinto su tela, sia scolpito in gesso.

Una grande apertura si apre verso la sala successiva, più alta, intitolata a Nicola Fiasconaro. Il rialzo del soffitto è stato ottenuto alla metà del Cinquecento demolendo il solaio dei locali del piano mezzanino corrispondenti alle due finestre cieche che si notano sulla facciata. Tutta la sala è arricchita da una alta fascia decorativa (sec. XVI): gli affreschi, risalenti alla scuola di Giulio Romano, sono suddivisi in dodici rettangoli -tre in ogni parete- e raffigurano, oltre ai consueti elementi giulieschi quali girali, animali fantastici, putti alati, damine danzanti e aeree architetture, le più importanti attività rurali stagionali; oggi solo alcune sono rimaste integre e leggibili. Un camino del secolo XVI, in marmo rosso veronese, nella sua semplice austerità, dona prestigio all’ambiente, sede delle attività culturali della casa. Nella sala ci accoglie il ritratto (fine XVI) della beata Osanna, dono nel 2003 di Federico e Claudia Gobio, con una ampia didascalia dorata che illumina il fondo scuro e l’abito nero della Beata, appena rischiarato dal bianco del bordo del velo e del soggolo.

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Uscendo, a destra,

si trova una suggestiva scala in cotto, con i gradini logorati dall’uso.

Conduce al pianerottolo del mezzanino in cui si apre, a destra, una porta del XVIII secolo, con il pannello superiore traforato a sagoma di monaca circondata da ornati. Da qui si accede al luogo più sacro della casa: la cappellina. Nella parete di fronte all’ingresso, in una nicchia, è posta la copia della maschera funeraria della Beata, brunita per i fumi e le cere (l’originale, restaurato è ora esposto nella sala museo al piano nobile). Dietro all’altare è posto il dipinto della bottega dei Costa (fine secolo XVI) dove la Beata è stante, sostenuta da un angelo, mentre calpesta il demonio. Di fronte, un altare addossato al muro è costituito da una antica lastra in marmo in cui è stata inserita una reliquia e al di sopra del quale è in vista una parte della collezione di reliquie. Sotto di esso due scatole in legno lavorato custodiscono le reliquie delle venerabili Margherita Torchi (???-1321) e Maddalena Coppini (???-1472), monache del monastero domenicano di San Vincenzo Martire, qui traslate dalla cattedrale l’11 ottobre 1985.

Ritornati nel pianerottolo, si scorge un corridoio. Recenti restauri fanno ritenere che ai tempi della Beata esso formasse un unico locale con le due camerette retrostanti.

La successiva suddivisione (post 1505) ha creato una piccola stanza, impreziosita da una completa decorazione: a tempera per le pareti che imitano pannelli in legno, oltre ad una stretta fascia sotto il soffitto con motivi fantastici naturalistici, a tessuto dipinto con motivi ripetuti a stencil per i cassettoni del soffitto. Fu questo probabilmente il luogo in cui Osanna spirò e l’oratorio potrebbe essere stato voluto dalla famiglia (e, forse, da Isabella d’Este) per ricordare il passaggio dell’anima beata di Osanna al Cielo. La seconda cameretta, attuale sacrestia, è senza decorazioni e vi si vedono gli stipiti di una porta che conduceva nell’edificio adiacente. Le porte di queste due camerette sono originali, seconda metà del XV secolo.

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La visita continua salendo

al piano nobile, costituito da quattro sale intercomunicanti, in origine tre camere da letto e, l’ultima, sala da pranzo.

A sinistra, la sala San Tommaso, presenta una fascia affrescata, sotto il soffitto, manchevole in più punti, risalente alla seconda metà del Quattrocento. L’affresco si estende anche a parte del pianerottolo (essendo, forse, in origine, un’unica sala). La stanza accoglie una Madonna ‘vestita’ (sec. XVIII) donata nel 2003, numerosi ritratti di santi domenicani e una Madonna del Rosario con san Domenico e la beata Osanna: tra i due una veduta di Mantova dal Ponte di San Giorgio.

Nella sala successiva, sala San Vincenzo Ferrer, la fascia di festoni secenteschi fu messa in luce nel 1972. Durante un recente restauro è stato ritrovato in alcune zone, in alto, allo stesso livello della rimanente zona chiara inferiore, un antico serto vegetale verde scuro. Questo serto è stato ricoperto da uno strato decorativo chiaro, maggiormente intonato alla restante decorazione, subito dopo la sua realizzazione, forse per un ripensamento dello stesso autore, tanta è la somiglianza di stile nelle due zone. La sala è adibita a biblioteca e a luogo di studio. Su una parete, sotto la fascia decorativa, è stato trovato un curioso disegno a terra rossa raffigurante un castello sopra un monte: è interessante perché tracciato sul più antico intonaco della stanza, corrispondente alla decorazione originaria. Il camino in marmo rosa veronese è del secolo XVI. In questa stanza si possono apprezzare ancora vivaci parti delle decorazioni sui legni del soffitto, originali come le travi e i travetti delle altre stanze.

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Proseguendo il percorso,

si entra nella terza sala,ora dedicata a Alessandro Magnaguti e adibita a museo. È decorata da una fascia di affreschi a grottesche (fine XVI sec.) con motivi architettonici e  teatrali. Nella stessa sala, una tempera (XVIII sec.) sopra la cappa del camino, trascurabile dal punto di vista pittorico, è interessante in quanto lo stemma degli Andreasi, al centro, è affiancato da quelli di due famiglie con loro imparentate. La decorazione è sormontata da un’ampia corona nobiliare. Il decoro del soffitto ripropone i motivi floreali e gli stemmi già visti nelle altre stanze. In questa sala sono custoditi e visibili gli oggetti di uso quotidiano appartenuti alla beata Osanna (il pettine, la cintura, il cilicio, il rosario, l’anello, l’abito, brani di merletto…), oltre ad una ampia selezione di reliquie. L’ultima stanza è intitolata a San Domenico e a Santa Caterina, in onore dei due santi qui rappresentati in due statue toscane, policrome (sec. XVI), dono di Mario Folloni Bolognesi e di Roberto Dall’Oglio nel 2019. Le pareti presentano una ricca decorazione di gusto mantegnesco: raffigura una loggia, le cui colonne, avvolte da un sottile tralcio di vite, poggiano su una balaustra e sostengono un architrave ornato nello stile di Lorenzo Leombruno (1489-1537). Fra le colonne, sostenuti da ghirlande floreali, vi sono cartigli con motti latini. Di fronte all’ingresso: (N)ullus (tan)dem homo (inf)elix quam diu vivit dicendus est (Non ci si può dire infelici finché si vive); proseguendo verso destra: Hominis nobilitas ex sola virtute nascitur (La nobiltà umana nasce soltanto dalla virtù);Omn(is) virtus in me(dio) consistit (La vera virtù evita ogni eccesso); Omnia amicorum sunt comunia (Gli amici mettono tutto in comune).

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Alla grande soffitta

si accede con una ripida scala: il vasto ambiente ha le pareti a pietra a vista che danno vita, con gli spioventi e con i piloni del tetto, a vivaci effetti di luce e di prospettiva. Qui sono visibili alcune travi parzialmente bruciate in seguito ad un incendio propagatosi al tempo della Beata e descritto nella prima biografia in latino, pubblicata nel novembre del 1505, dal domenicano p. Francesco Silvestri. Nel 1507 Giulio da Vicomercato tradusse in volgare tale biografia e da essa si riporta l’episodio dell’incendio.

Avvenne che un giorno, di sera, la casa contigua alla sua cominciò a bruciare ed era evidente il futuro incendio della sua, perché già il fuoco era giunto nei tetti. Accorse più persone per estinguere le fiamme, Lei collaborò con la preghiera. A Cristo suo sposo disse dunque così: Ti prego, carissimo sposo, che queste nostre case non siano distrutte dall’incendio, benché questo richiedano i nostri peccati. Io sono, infatti, piena di ingratitudine; con gravissimi peccati ti irrito ogni ora; ma conosco la tua pietà, la tua clemenza, la tua misericordia per le quali oso sperare anche il tuo perdono; che se questa nostra casa perirà nell’incendio, penserò e dirò: sono stati i miei peccati. A lei che chiedeva questo apparve Cristo, che consolandola disse: non rattristarti, figliuola, proteggerò io la tua casa dal fuoco e resterà illesa. E la promessa non si fermò alle parole: un gran vento si levò da più parti e, soffiando, rivolse altrove le fiamme che in breve tempo si estinsero.